A un anno di distanza i sacchetti biodegradabili per l’acquisto di prodotti sfusi nei supermercati non hanno inciso sui comportamenti dei consumatori. A dirlo è una recente ricerca condotta dall’Istituto Nielsen. Dallo studio è emerso che il 97% degli italiani conosce sia la normativa con cui sono stati introdotti gli shopper biodegradabili e compostabili ultraleggeri (il decreto del 3 agosto 2017 n. 123, nel quale all’articolo 9-bis è stato aggiunto il recepimento della direttiva 2015/0720/Ue), sia che per utilizzarli per pesare e prezzare i prodotti sfusi nei punti vendita della distribuzione moderna è previsto un pagamento.
Al contempo, però, l’indagine rivela che la normativa, tesa ridurre l’utilizzo di plastica, è stata recepita in due modi diametralmente opposti dai cosiddetti ‘alto-acquirenti’ e ‘basso-acquirenti’ di ortofrutta. Per i primi, ovvero per coloro che acquistano quantità sopra la media di prodotti nel comparto, i contenuti della normativa sono condivisibili in quanto incentivano comportamenti maggiormente rispettosi nei confronti dell’ambiente (all’interno di questa categoria lo pensa il 14% degli intervistati in più rispetto alla media degli italiani). Per i secondi, invece, l’introduzione dei sacchetti biodegradabili ha avuto come principale effetto l’aumento dei prezzi di frutta e verdura (7% in più rispetto alla media). Quest’ultima categoria, dunque, non si è fatta influenzare dallo ‘spirito ambientalista’ della normativa continuando a preferire i prodotti confezionati piuttosto che quelli sfusi perché più comodi e pratici.
Servono sacchetti più resistenti
I dati più interessanti della ricerca sono però altri due. Il primo è che nessuno dei due gruppi di acquirenti (alto-acquirenti e basso-acquirenti) ha dichiarato di aver cambiato le proprie abitudini di acquisto a seguito dell’introduzione dei sacchetti biodegradabili. Il secondo, invece, riguarda i player del settore. A loro il 69% degli intervistati chiede sacchetti bio più resistenti in modo da poter percorrere tragitti medi-lunghi con la spesa in mano senza il timore che la sporta si rompa. Inoltre il 64% suggerisce una diversificazione dei formati delle buste così da poterle riciclare e usarle a casa per la raccolta dei rifiuti organici.
Metà delle buste è fuori norma
Come dimostrato da questa ricerca, la legge che un anno fa ha introdotto i sacchetti biodegradabili per i prodotti sfusi nei supermercati non ha affatto risolto tutti i problemi del comparto. La criticità principale è connessa ai controlli, considerato il fatto che secondo le ultime stime di Assobioplastiche degli 80 milioni di chili di buste della spesa in circolazione circa la metà non è a norma.
Le nostre richieste
Quello segnalato da Assobioplastiche non è però l’unico problema da risolvere. Almeno altri due riguardano, infatti, direttamente i consumatori, costretti a pagare un extra per i sacchetti biodegradabili (tra 1 e 5 centesimi per quelli della grande distribuzione, fino a 10 centesimi nei piccoli esercizi). Insomma, una vera e propria tassa nonostante la direttiva Ue 2015/720, recepita dalla norma italiana, non prevede questo costo aggiuntivo. L’altro problema rimanda alle tante segnalazioni arrivate in questi mesi ai nostri sportelli di scontrini su cui è stato battuto automaticamente il sovraprezzo delle buste nonostante non fossero state utilizzate.
Qualcosa si è mosso nel marzo scorso quando una sentenza del Consiglio di Stato ha dichiarato che i sacchetti di plastica per frutta e verdura si possono portare da casa purché “idonei a preservare l’integrità della merce e rispondenti alla caratteristiche di legge”, dunque monouso, nuovi, adatti per gli alimenti e compostabili (vale a dire biodegradabili in 3 mesi). Questa decisione, però, non risolve il problema del rispetto della normativa sulla tara. Segno che c’è ancora molto da lavorare per trovare la giusta sintesi tra diminuzione della produzione di plastica, tutela dell’ambiente e del consumatore. Con quest’ultimo che, finora, in questa vicenda ha pagato il prezzo più caro.
Autore: Rocco Bellantone