di Valeria Zeppilli
La sola circostanza che il medico non sia un suo dipendente, non esonera la struttura sanitaria dal rispondere del danno da omessa acquisizione del consenso informato del paziente.
A dirlo è la Corte di cassazione che, con la sentenza numero 1043/2019, ha ritenuto operante anche con riferimento a tale aspetto della prestazione medica il principio in forza del quale la struttura risponde a titolo contrattuale dei danni subiti dal paziente, per fatto proprio, sia quando questi siano dipesi dalla sua inadeguatezza, sia quando siano dipesi dalla colpa dei sanitari dei quali si avvale, anche se non sono suoi dipendenti.
Tale principio, per i giudici, non trova ostacolo nella circostanza, pur ritenuta vera e ribadita, che l’acquisizione del consenso informato costituisce una prestazione del sanitario altra e diversa rispetto a quella che ha a oggetto l’intervento terapeutico.
Differenti prospettive risarcitorie
Per la Corte di cassazione, inoltre, bisogna considerare che il caso in cui il paziente lamenta un danno alla salute conseguente all’assenza di un’adeguata informazione circa l’intervento o il trattamento subito è diverso dal caso in cui egli si dolga dell’omessa liquidazione del danno che discende da tale condotta omissiva per il solo fatto della lesione del suo diritto ad autodeterminarsi.
Si tratta, infatti, di due prospettive risarcitorie differenti che rispondono a dei fondamenti logico-giuridici diversi con risvolti anche sul riparto dell’onere probatorio.
Nel primo caso, se l’atto terapeutico era necessario ed è stato eseguito secondo le regole dell’arte, ma non è stato preceduto da un’adeguata informazione, il paziente può essere risarcito del danno alla salute solo ove dimostri che, se fosse stato compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.
Nel secondo caso, invece, l’inadempimento dell’obbligo di informazione può assumere rilievo a fini risarcitori anche quando sia mancato un danno alla salute o questo non sia ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione. Per il risarcimento basta la prova dell’esistenza di pregiudizi non patrimoniali connessi alla violazione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato, purché questi superino la soglia minima di tollerabilità che i doveri di solidarietà sociale impongono e non siano futili.