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ECONOMIA CIRCOLARE, ITALIA ANCORA PRIMA MA PERDE PUNTI

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Per mantenere il primato nel settore dell’economia circolare serve maggiore impegno per la tutela del capitale naturale e nella lotta alla crisi climatica

Elena Leoparco

Niente si distrugge e tutto si trasfroma: potrebbe essere riassunto così il principio base dell’economia circolare, il modello produttiv che permette di dare nuova vita ai materiali di scarto.

Il consumo di materiali cresce a un ritmo doppio di quello della popolazione mondiale. Ogni abitante della Terra utilizza più di 11.000 chili di materiali all’anno. Un terzo si trasforma in breve tempo in rifiuto e finisce per lo più in discarica; solo un altro terzo è ancora in uso dopo appena 12 mesi.

 

La soluzione a questa modalità di consumo “usa e getta” è conversione all’economia circolare: materiali e anche oggetti che possono essere riciclati e riutilizzati più e più volte. In questo ambito, il nostro Paese ha tradizionalmente una posizione di forza.

Italia sul podio dell’economia circolare

Siamo infatti primi, tra le cinque principali economie europee, nella classifica per indice di circolarità, il valore attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse in cinque categorie: produzione, consumo, gestione rifiuti, mercato delle materie prime seconde, investimenti e occupazione. Sul podio, ancora ben distanziate, anche Germania e Francia, con 11 e 12 punti in meno.

Ma stiamo perdendo posizioni: a minacciare un primato che è anche un asset per la nostra economia è la crescita veloce di Francia e Polonia, che migliorano la loro performance con, rispettivamente, più 7 e più 2 punti di tasso di circolarità nell’ultimo anno, mentre l’Italia segna il passo.

È quanto emerge dal “Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia” 2020, realizzato dal CEN-Circular Economy Network, la rete promossa dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da 14 aziende e associazioni di impresa, e da ENEA.

“Nell’economia circolare, l’Italia è partita con il piede giusto e ancora oggi si conferma tra i Paesi con maggiore valore economico generato per unità di consumo di materia”, commenta Edo Ronchi, presidente del Circular Economy Network. “Sotto il profilo del lavoro, siamo secondi solo alla Germania, con 517.000 occupati contro 659.000”.

L’Italia di fatto utilizza al meglio le scarse risorse destinate all’avanzamento tecnologico e ha un buon indice di efficienza (per ogni chilo di risorsa consumata si generano 3,5 euro di Pil, contro una media europea di 2,24). Ma è penalizzata dalla scarsità degli investimenti – che si traduce in carenza di ecoinnovazione (siamo all’ultimo posto per brevetti) – e dalle criticità sul fronte normativo.

Un segnale incoraggiante dalla bioeconomia

La bioeconomia cresce di valore e peso complessivo: in Europa ha fatturato 2.300 miliardi di euro con 18 milioni di occupati nell’anno 2015. In Italia l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia registra un fatturato di oltre 312 miliardi di euro e circa 1,9 milioni di persone impiegate (177 volte i dipendenti dell’Ilva).

I comparti che contribuiscono maggiormente al valore economico (63%) e occupazionale (73%) della bioeconomia sono l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco e quello della produzione primaria (agricoltura, silvicoltura e pesca). Si tratta di settori di peso rilevante e di attività che hanno un ruolo fondamentale nel rapporto con il capitale naturale: indirizzarli in direzione della sostenibilità è essenziale.

La bioeconomia è quindi un tassello fondamentale nella salvaguardia delle risorse naturali. Ma – avverte il Rapporto CEN – solo a condizione che sia rigenerativa, cioè basata su risorse biologiche rinnovabili e utilizzate difendendo la resilienza degli ecosistemi e non compromettendo il capitale naturale con prelievi e modalità di impiego che ne intacchino gli stock.