di Annamaria Villafrate
L’ordinanza n. 32381/2019 della Cassazione rigetta il ricorso di un lavoratore, che si è visto respingere sia in primo che in secondo grado la domanda risarcitoria per gli asseriti danni alla salute subiti a causa delle condotte mobbizzanti della società datrice e dei colleghi.
Gli Ermellini, dopo aver appurato il mancato supporto probatorio alle richieste avanzate dal lavoratore, ricorda che affinché possa configurarsi una condotta qualificabile come mobbizzante è necessario il contestuale ricorso di più condotte sistematiche e prolungate legate tra loro da un intento persecutorio, a cui conseguono i danni alla salute fisica o psichica del dipendente.
Condotte vessatorie da parte di dirigenti e colleghi
Un vice capo ufficio con mansioni di cassiere terminalista ricorre al giudice di primo grado lamentando di essere oggetto da diverso tempo di condotte vessatorie da parte dei dirigenti della società datrice e dei colleghi. Egli lamenta di essere stato scavalcato da colleghi più giovani con meno esperienza e meno qualifiche per il ruolo di capoufficio, di essere stato destinato a distacchi e trasferimenti frequenti senza fondati motivi organizzativi aziendali e di essere stato oggetto di misure disciplinari rimaste inattuate, subendo così un’inutile pressione psicologia.
Il lavoratore lamenta come le condotte sopra descritte gli avrebbero provocato una malattia psicofisica consistente in attacchi d’ansia, insonnia e depressione. Per questo avanza domanda risarcitoria di 60.000 euro.
La società datrice però resiste e chiede il rigetto della domanda. Il Tribunale rigetta la domanda risarcitoria del lavoratore che propone appello, mentre la datrice avanza appello incidentale per la compensazione delle spese di primo grado. Il giudice dell’impugnazione respinge entrambe le domande, il lavoratore avanza ricorso in Cassazione, a cui resiste la società datrice.
Il ricorso in Cassazione
Il lavoratore, padre di un bambino affetto dalla sindrome di down, in sede di legittimità, lamenta la lesione del diritto previsto dall’art. 33 n. 5 della legge n. 104/1992, il quale prevede che il lavoratore che usufruisce dei permessi per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quello di residenza del dipendente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
Egli ritiene inoltre che le condotte della datrice abbiano violato gli artt. 2697 (onere della prova), 2727 (nozione di presunzioni) e 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) del codice civile.
Il punto sul mobbing della Cassazione
La Cassazione con ordinanza n. 32381/2019 rigetta il ricorso del lavoratore per le seguenti ragioni:
la lamentata assenza di ragioni organizzative della società datrice che hanno condotto ai trasferimenti del dipendente sono rimaste prive di prova;
parimenti infondato e privo di riscontro probatorio l’asserito mancato avanzamento di carriera;
così come infondato è risultato il carattere pretestuoso delle contestazioni disciplinari elevate. Le varie contestazioni a cui non sono seguite le relative sanzioni dimostrano al contrario l’atteggiamento tollerante della datrice e l’accoglimento delle giustificazioni addotte volta per volta dal dipendente;
sia in primo grado che in sede d’appello il lavoratore non ha mai denunciato la violazione dell’art 33 comma 5 della legge 104/1992 per sostenere il fondamento della domanda risarcitoria di 60.000 euro;
il dipendente infine non ha provato l’esistenza del danno da mobbing e la nocività dell’ambiente di lavoro che glielo avrebbe provocato.
La Cassazione nel respingere il ricorso del dipendente ricorda quali sono gli elementi sostanziali e procedurali necessari a configurare una condotta di mobbing, del tutto assenti nel caso di specie:
“una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Come precisa inoltre, richiamando giurisprudenza costante, “l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”.