di Lucia Izzo
Le condotte “mobbizzanti” del datore di lavoro nei confronti del dipendente rischiano di costare una condanna per “lesioni personali”: nella nozione di cui all’art. 590 c.p. devono ritenersi comprese anche le patologie psichiche documentate dal dipendente e provocate dalla condotta del superiore.
Anzi, nonostante non sia stata riconosciuta dal consulente del P.M. l’esistenza del disturbo depressivo maggiore, per l’integrazione del delitto è sufficiente la sindrome ansiosa su base reattiva del lavoratore rilevata dai sanitari e provocata dalle vessazioni del datore di lavoro. Il termine di prescrizione per il reato, inoltre, inizia a decorrere da quando la malattia insorge e non dalla cessazione del rapporto.
Tanto ha chiarito la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n. 44898/2018 pronunciandosi sulla sentenza che aveva confermato la condanna per lesioni personali colpose commesse da un datore di lavoro in danno al dipendente.
Il caso
In particolare, secondo le imputazioni, tali “lesioni” erano consistite nell’aver cagionato al dipendente una marcata patologia psichiatrica nell’ambito del posto di lavoro: questa era derivata dall’aver il datore commesso nei confronti del dipendente una serie di comportamenti vessatori e persecutori, sia mediante espressioni ingiuriose, sia mediante pressioni per lo svolgimento di attività lavorative dopo che questi era rimasto in regime di malattia per alcuni periodi, sia mediante continue e ripetute contestazioni disciplinari spesso a contenuto del tutto pretestuoso.
Ne era derivato a carico del lavoratore, sempre secondo la contestazione, l’insorgere dapprima di una sindrome ansioso depressiva su base reattiva, indi il manifestarsi di un disturbo depressivo maggiore.
Per la Corte di merito, i comportamenti tenuti dal datore di lavoro e gli esiti patologici sono confermati da una pluralità di fonti di prova e gli esiti patologici sono confermati attraverso l’acquisizione di ulteriori elementi probatori, comprese diagnosi mediche e consulenze.
Lesioni: la prescrizione decorre dall’insorgenza della malattia
La Corte di Cassazione, tuttavia, non può che rilevare la prescrizione del reato: nel reato di lesioni personali colpose (anche in ambito lavorativo) il termine prescrizionale inizia a decorrere dal momento dell’evento, ovvero dal momento di insorgenza della malattia in fieri anche se non ancora stabilizzata o divenuta irreversibile o permanente. Non, invece, come aveva ritenuto la Corte territoriale, dalla data di cessazione del rapporto.
Tuttavia, nonostante l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ai fini penali, gli Ermellini ne confermano gli effetti civili: numerose sono le prove, valutate dal giudice a quo, dunque non porta a nulla il ricorso dell’imputato nella parte in cui tenta di contestarne alcune.
Integrano lesioni le patologie provocate dal mobbing
Una volta ravvisata l’astratta riferibilità causale delle patologie psichiche (integranti sicuramente la nozione di “lesioni”) alle condizioni cui la persona offesa era sottoposta dal datore di lavoro (con condotte delle quali é stata data comunque dimostrazione, anche per via documentale), la sentenza impugnata ha anche posto l’accento sull’assenza di dimostrazione circa ipotetici decorsi causali alternativi e sulla non emersione di eventuali fattori causali sopravvenuti, idonei a interrompere il nesso eziologico ex ‘art. 41, comma 2, del codice penale.
Su tale assunto non ha effetto il mancato riconoscimento del disturbo depressivo maggiore da parte del consulente del P.M. il quale ha comunque confermato che la persona offesa era affetta da una sindrome ansiosa su base “reattiva”, che quindi non presenta andamento esclusivamente “endogeno” e meglio si attaglia, sul piano della riconducibilità causale, alle condizioni vessatorie cui era sottoposto il lavoratore.
Infondato è anche il motivo di ricorso relativo al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni civili: la Corte ha correttamente assolto l’onere motivazionale che grava sul giudice che applica una sanzione prossima al massimo edittale. I giudici, infatti, hanno fatto ampio riferimento sia alla gravità del fatto, sia alla reiterazione e alla vessatorietà delle condotte, sia agli esiti lesivi riportati dalla persona offesa.