La crisi del 2020 e gli effetti dell’emergenza Covid si fanno sentire sui bilanci familiari con una compressione delle spese libere e un aumento di quelle obbligate che incidono per quasi il 44% (43,7%) sul totale dei consumi delle famiglie, arrivando a pesare per oltre 7.000 euro l’anno pro capite (7.070). E’, in termini percentuali, il livello più alto dal 1995, quando erano il 36,6% (39,1% nel 2007, 41,9% nel 2013, 40,6% nel 2019). In valore assoluto erano 7.142 euro nel 1995, 7.511 nel 2007, 7.068 nel 2013 e 7.318 nel 2019. E’ quanto emerge dall’analisi dell’ufficio studi di Confcommercio sulle spese obbligate delle famiglie tra il 1995 e il 2020.
Tra le spese obbligate, la voce abitazione è quella che incide maggiormente arrivando a “mangiarsi” – tra affitti reali ed imputati, manutenzione energia, acqua, smaltimento rifiuti – oltre 4.000 euro pro capite (4.039), vale a dire un quarto delle spese (25%), dato in crescita sia nel confronto con il 2019 (22,5%) che nel lungo periodo: nel 1995, in termini pro capite, a questa funzione veniva destinato il 18% dei consumi, 20,4% nel 2007, 23,7% nel 2013.
Per quanto attiene alle spese obbligate legate alla mobilità -assicurazioni, carburanti e manutenzione dei mezzi di trasporto – la riduzione sia dei volumi sia dell’incidenza registrata nel 2020, seppure si inserisce in un trend di lungo periodo, è sintomatica di un andamento ancora più negativo rispetto al totale. L’intensità della caduta è solo in minima parte attribuibile alla riduzione dei prezzi dei carburanti.
In linea con le dinamiche registrate nel lungo periodo, e sostenuta dalle caratteristiche della crisi in corso, l’area delle spese sanitarie ha evidenziato nel 2020 una moderata caduta dei volumi, dinamica che ha portato, congiuntamente a una variazione più elevata dei prezzi, ad un ulteriore aumento dell’incidenza.
Relativamente alle altre spese obbligate, il cui peso si era progressivamente ridotto nel lungo periodo, nell’ultimo anno si è registrato un aumento legato in larga parte ai servizi finanziari.
Nel dettaglio, nel 2020, i consumi pro capite sono pari a 615 euro per sanità (3,8%), 1.570 euro per assicurazioni, carburanti e manutenzione mezzi di trasporto (9,7%), 846 euro (5,2%) per protezione sociale, servizi finanziari e altri servizi.
All’interno dei consumi commercializzabili (9.095 euro pro capite nel 2020) la componente principale è rappresentata dai beni (6.569 euro) con una quota sul totale consumi in lieve aumento (dal 38,4% del 2019 al 40,6% del 2020), mentre i servizi (2.526 euro) interrompono la costante crescita dal 1995 con un brusco calo nell’ultimo anno dal 21% al 15,6%; per la prima volta dal 2007, si spende più per gli alimentari (2.806 euro pro capite, pari al 17,4%) che per i servizi.
Per gli alimentari, che includono le bevande, alcoliche e non, si spendevano 3.026 euro nel 1995 (17,9%), 3.146 nel 2007 (15,4%), 2.687 nel 2013 (15,3%), 2.757 nel 2019 (15,1%), 2.806 nel 2020 (17,4%).
L’aggiornamento al 2020 della scomposizione dei consumi delle famiglie tra spese obbligate e spese commercializzabili, è largamente influenzato da quanto accaduto negli ultimi mesi. La profonda crisi del 2020 ha amplificato la tendenza di lungo periodo ad una compressione delle spese determinate dai gusti e dai desideri delle famiglie consumatrici a vantaggio delle spese per le quali si ha poca, o nessuna, libertà di scelta. Allo stesso tempo ha interrotto la progressiva terziarizzazione dei consumi. I servizi commercializzabili, che tra il 1995 ed il 2019 avevano registrato una costante e significativa espansione della quota di spesa, stanno conoscendo in questi mesi un brusco regresso. Si stima che in un solo anno la quota di consumi ad essi destinata sia scesa dal 21% al 15,6%. Da questi servizi passa la maggior parte dei consumi su cui si costruisce il proprio benessere economico.
La sostanziale assenza d’inflazione negli ultimi anni non ha impedito che la forbice tra prezzi dei beni e servizi obbligati e beni e servizi commercializzabili continuasse ad ampliarsi. Le moderate fluttuazioni al rientro, imputabili perlopiù alla variabilità degli energetici, sono sempre state seguite da una ripresa più accentuata. Per quanto riguarda molte delle spese obbligate, i relativi prezzi si formano sovente in regimi regolamentati e, comunque, in mercati scarsamente liberalizzati.
Ciò si è riflesso in una perdurante pressione inflazionistica che toglie risorse ai consumi più genuinamente oggetto di scelta. Fatto 100 il dato di ciascun indice di prezzo nel 1995, nel 2020 si stima che il prezzo (medio ponderato) delle spese obbligate abbia raggiunto un valore di poco inferiore a 190 rispetto all’indice per il complesso dei consumi ben al di sotto di 160. Molto meno inflazionistici sono risultati i beni commercializzabili (136,4) e solo un po’ più dinamici sono stati i prezzi dei servizi commercializzabili (151,9).
Tra le riforme necessarie al Paese, secondo Confcommercio, per innescare dinamiche di crescita superiori a quelle che abbiamo sperimentato negli ultimi veni anni, vi è il rafforzamento del processo di liberalizzazione dei mercati di offerta di molti beni e servizi obbligati, elemento che non potrebbe che giovare al sistema economico nel complesso e al miglioramento del benessere economico della popolazione.
Secondo il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, l’emergenza Covid ha riportato i consumi ai livelli più bassi degli ultimi 25 anni. Preoccupa l’aumento delle spese obbligate. Se non si interviene con decisione tagliando le tasse perderemo definitivamente la possibilità di agganciare la ripresa economica.
Ad avviso dell’Unc, questi dati dimostrano che bisogna ridare capacità di spesa alle famiglie. Per farlo, però, andrebbero ridotte le imposte su luce, gas, le tasse che paghiamo per acqua, rifiuti, le accise sui carburanti o l’Iva, che ha effetti regressivi e pesa su chi è già in difficoltà, specie l’aliquota del 22% sui beni necessari come i prodotti per la pulizia della casa e della persona.
Riformando l’Irpef, invece, come pare voglia fare il Governo Conte II, si andrebbe nella direzione sbagliata, essendo l’unica imposta progressiva rimasta che rispetta l’art. 53 della Costituzione, secondo il quale il nostro sistema tributario dovrebbe essere informato a criteri di progressività. Se proprio si vuole toccare l’Irpef, è la prima aliquota del 23% o la seconda del 27% che andrebbero ridotte, abbassamento di cui comunque si avvantaggerebbero anche i ceti più abbienti, non certo quella intermedia del 38% come proposto in questi ultimi mesi, sia per un fatto di giustizia sociale sia perché i redditi medio bassi hanno una propensione marginale al consumo maggiore rispetto ai ceti medio alti, e quindi, aumentando il loro reddito disponibile si avrebbe un maggior effetto sui consumi. Quanto alle liberalizzazioni, l’Unc concorda con la Confcommercio: andrebbero fatte. Purtroppo, però, non sono mai entrate nell’agenda politica di questi ultimi Governi e dopo le lenzuolate Bersani ed il Governo Monti, che ha liberalizzato gli orari dei negozi e l’rc auto, non si è fatto più nulla.
Autore: Mauro Antonelli