di Lucia Izzo
Grava sul dipendente che denuncia il c.d. mobbing lavorativo e chiede di essere risarcito, l’onere di dimostrare l’esistenza del danno e il nesso causale con il contesto di lavoro. Il mobbing va dunque escluso se non è offerta la prova dell’emarginazione e dell’intento persecutorio del datore di lavoro che connota le singole condotte denunciate.
La vicenda
Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, sezione lavoro nell’ordinanza n. 9664/2019 respingendo il ricorso di un lavoratore che riteneva di essere stato “mobbizzato” sul luogo di lavoro nel periodo, fino al pensionamento, durante il quale aveva lavorato per un CAF. Di conseguenza, chiedeva il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale occorsogli.
Tuttavia, secondo la Corte d’Appello, non era stata raggiunta la prova di una protratta e sistematica emarginazione del dipendente, nel lungo periodo in considerazione, mossa da un intento persecutorio né di un demansionamento del lavoratore.
Una decisione contestata dall’ex dipendente che ritiene la sentenza appellata viziata avendo il giudice a quo errato nel ricostruire il contenuto di dichiarazioni testimoniali aventi ad oggetto circostanze decisive e di particolare rilievo.
Doglianze che gli Ermellini ritengono sono infondate in quanto la motivazione del giudice di merito aveva tenuto conto anche di altri elementi di fatto emersi nel corso dell’istruttoria e dai quali la Corte ha conclusivamente tratto il convincimento dell’insussistenza di una qual si voglia forma persecutoria o vessatoria.
Il dipendente dovrà dimostrare il danno da mobbing
La sentenza della Corte territoriale non è incorsa, dunque, nella violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell’onere della prova (ex art. 2697 c.c.). La Cassazione rammenta che il “mobbing” lavorativo è configurabile ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo.
In particolare, spiega il Collegio, sarà onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro (cfr. Cass. n. 17698/2014 e 12437/2018).
La Corte territoriale, si legge nel provvedimento, ha correttamente applicato tale regola e, sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite in giudizio, ha escluso che fosse stata offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate da un’emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro.
In sostanza, è stato escluso che il comportamento datoriale fosse stato caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”. Il ricorso va rigettato