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NIENTE MOBBING SENZA INTENTO PERSECUTORIO

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No al risarcimento per mobbing se non è dimostrato un fine persecutorio o discriminatorio. Questo il principio che si ricava dalla recente sentenza n. 4/2018 del Tribunale di Ascoli Piceno (Dott. Andrea Pulini) che ha rigettato la richiesta di un dipendente che aveva convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro domandando il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti a causa di mobbing.

Mobbing: cosa dice la Cassazione

Dalla sentenza 22393/2012 della Cassazione possiamo dedurre che «per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità».

Il mobbing richiede quindi o la condotta diretta del datore di lavoro, che a norma dell’articolo 2087 c.c. è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, oppure la condotta indiretta di un altro lavoratore e la conseguente colpevole inerzia del datore di lavoro.

La vicenda

Nel caso di specie, il ricorrente ravvisa non solo il mobbing indiretto, a causa delle parole ingiuriose subite dal consigliere delegato e dal responsabile dello stabilimento, ma anche quello indiretto, a causa delle sanzioni comminategli dal datore di lavoro per il suo rifiuto di svolgere mansioni che egli giudicava incompatibili con il suo stato di salute.

Il giudice ha giudicato il ricorso infondato.

Primariamente va detto che l’elemento soggettivo della persecuzione degli atti ai suoi danni non sembra potere configurare la fattispecie giuridica del mobbing.

Niente mobbing senza “persecuzione”

A norma della sentenza 815/2012 del Consiglio di Stato va ricordato che «la sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing».

Tutto ciò non è ravvisato dal giudice, secondo cui le condotte poste in essere dai soggetti richiamati sono troppo numericamente esigue per configurare quella reiterazione della condotta che la fattispecie giuridica richiede, ancorandosi al dato della mera occasionalità.

Rifiuto ingiustificato mansioni assegnate

In aggiunta a ciò non può tacersi che il rifiuto delle mansioni assegnate deve ritenersi ingiustificato; oltre a non essere stato tempestivamente impegnato né con ricorso ordinario né in sede cautelare, non si può pretendere che il datore di lavoro si discosti dalle direttive medico-sanitarie poste in essere dalla struttura medica pubblica alla quale si è rivolto, non avendo competenze medico-legali. Questo per quanto concerne il comportamento esigibile dal datore di lavoro.

Oltre alla valutazione di un medico competente in relazione all’idoneità a svolgere le nuove mansioni, al datore di lavoro non si poteva domandare altro con sua consequenziale esenzione da qualsivoglia responsabilità; il fragile castello probatorio del ricorrente è così destinato a crollare.

Per quanto concerne il ricorrente va evidenziato come egli si sia limitato a domandare il risarcimento dei danni per il comportamento a suo avviso colposo del datore di lavoro, senza impugnare e, soprattutto, senza comprovare che il carico effettivo di lavoro potesse configurarsi come abnorme o inesigibile.